domenica 10 marzo 2013

Soldi, Misteri e Altre Conseguenze, di Federico Negri

Anna è una giovane analista economica, il cui lavoro e i cui progetti vengono sconvolti dall’incontro imprevisto con un genio della finanza. Trascinata insieme all’amico e collega Rino in giro per il mondo, in un vortice di avventure senza respiro, vedrà minacciata la sicurezza stessa della sua famiglia.
Anna si scoprirà a varcare ripetutamente i propri limiti, sino a un finale aperto e sorprendente, in cui un nemico invisibile aspettava da sempre nell'ombra, pronto a colpire proprio quando tutto sembrava finalmente essersi aggiustato.
La trama principale si mescola alla complessità della micro vita di Anna e della carrellata di incredibili personaggi con cui viene a contatto nella sua corsa per quattro diversi continenti.
Una storia che intenzionalmente vuole essere difficile da collocare in un genere predefinito, una narrazione scorrevole, veloce e avvincente, che, pagina dopo pagina, prende per mano il lettore e lo fa scivolare in un mondo dove tutto può accadere.

Per scaricarlo clicca sul tuo ebook dealer preferito:
 



mercoledì 6 marzo 2013

Elezioni 2013: "la folla continuava a chiamare il capo, il mago, lo stregone".

Considerando i desolanti risultati delle elezioni 2013, mi viene da pensare che molti dei votanti non si ricordino le letture che, quando andavamo al liceo, i nostri insegnanti di italiano ci imponevano durante l'estate.
Purtroppo vedo in parlamento una generazione di quarantenni, quindi miei coetanei, che sembra aver dimenticato, o forse mai letto, i grandi classici. E soprattutto sembra non aver studiato la storia. L'Unione Europea è stata creata dopo la seconda guerra mondiale, con lo scopo (raggiunto, sinora) di far cessare i conflitti in Europa. E adesso si parla di uscire dall'Euro. Comunque i miei vaneggiamenti sono di interesse limitato, preferisco lasciare la parola all'immortale Ignazio Silone e le sue storiche adunate.
Leggete e meditate.

L’adunata in Vino e pane

Nella carrozza stipata di giovani richiamati alle armi, due signori col distintivo del partito parlavano della guerra. Gli altri viaggiatori tacevano e ascoltavano.  
«Con l’invenzione di cui dispone il nostro esercito, vedrai che la nuova guerra d’Africa finirà in pochi giorni»
diceva uno. «Il “raggio della morte” carbonizzerà il nemico.»
Egli si soffiò a piene gote sulla palma di una mano come per disperdere la polvere, intendendo: sarà disperso così.
«Hai letto che i richiamati di Avezzano saranno oggi benedetti dal vescovo?» disse l’altro. «Capirai, il  “raggio della morte” aprirà la via anche ai missionari.»
Tra i giovani richiamati viaggiava un vecchio contadino con l’organetto. Suo figlio teneva appoggiata la testa sulla sua spalla e dormiva. [...] Il vecchio con l’organetto fece passare un fiasco di vino. “Suona qualche cosa” gli ripetevano i vicini. Ma egli scuoteva la testa, faceva cenno di no, non ne aveva voglia.
Don Paolo se ne stava rannicchiato in un angolo. Il suo cappello spelato e sformato, la sua zimarra vecchia, sdrucita, stropicciata, gli davano l’aspetto di un povero parroco di montagna. Egli riconosceva da molti piccoli segni gli abitanti dei villaggi, quelli dlle valli, quelli della montagna, quelli che scendevano dagli stazzi dei pastori; povera gente la cui capacità di sofferenza e di rassegnazione non aveva veramente limiti, abituati a vivere isolatamente, nell’ignoranza, nella diffidenza, nell’odio sterile delle famiglie.
Ogni volta che don Paolo credeva di riconoscere tra i viaggiatori qualcuno di Orta, si copriva la faccia col breviario e abbassava il cappello sugli occhi. Anche il paesaggio aveva messo l’uniforme. Sul treno, nelle stazioni, sui pali del telegrafo, sui muri, sugli alberi, sulle latrine, sui campanili, lungo le cancellate dei giardini, lungo i parapetti dei ponti, si leggevano iscrizioni inneggianti alla guerra.
Egli arrivò a Fossa senza alcun incidente. Il borgo pareva irriconoscibile sotto una decorazione multicolore di ordini di adunata, di festoni, di bandiere, di iscrizioni sui muri con la biacca, la vernice, il gesso, il bitume, il carbone. L’albergo Girasole pareva diventato un centro di mobilitazione.
[...] A mano a mano che si avvicinava l’ora in cui sarebbe stato trasmesso dalla radio il proclama di guerra, la folla che già gremiva le strade, si faceva più fitta. Da tutte le parti arrivavano motociclette automobili autocarri carichi di poliziotti, di carabinieri, di militi, di funzionari del partito e delle corporazioni. Dalla strada delle valli arrivavano gli asini i traini le biciclette gli autocarri che trasportavano i cafoni. Due bande musicali compivano per le vie del borgo volteggi, suonando e risuonando lo stesso inno fino alla noia, all’ossessione. I bandisti traevano monture da domatori di circo e da portieri di grandi alberghi, con alamari sontuosi e bottoni metallici in doppia fila sul petto. Di fronte alla bottega d’un barbiere era stato esposto un cartellone che rappresentava alcune donne abissine con lunghe mammelle, pendenti fin quasi alle ginocchia. Un folto gruppo di giovanotti si era fermato davanti al cartellone, ridevano e guardavano con occhi avidi.
In fondo alla piazzetta, tra la sede del partito e la loggia municipale, era stato issato un apparecchio radio, incoronato da un trofeo di bandiere. Da lì sarebbe uscita la voce di guerra. Sotto quel piccolo oggetto, dal quale dipendeva il destino collettivo, veniva ammucchiata la povera gente a mano a mano che affluiva. Le donne si accoccolavano per terra, come in chiesa e al mercato, gli uomini si sedevano sulle bisacce o sui basti degli asini. Essi sapevano solo vagamente perché si trovassero li raccolti e guardavano di sbieco la cassetta metallica della radio. A trovarsi li tutti insieme, restavano disorientati, tristi, diffidenti.
La piazzetta e le vie adiacenti erano già gremite di gente, tuttavia l’afflusso dei dintorni continuava ininterrotto. Arrivavano gli sciancati dalle cave di pietra, gli orbi dalle fornaci, gli zappaterra sfiancati e curvi, i vignaroli dalle colline, con le mani rose dallo zolfo e dalla calce, gli abitanti della montagna con le gambe arcuate dall’opera del falciare. Poiché il vicino era disposto a venire, ognuno aveva voluto venire. Se la guerra porterà sventura, sarà una sventura per tutti, cioè mezza sventura; ma se porterà fortuna, bisognerà cercare di averne una parte. Così tutti si erano mossi. Avevano lasciato la pigiatura dell’uva, la ripulitura delle botti, la preparazione della semina, ed erano accorsi al capoluogo di mandamento. Arrivarono infine anche gli abitanti di Pietrasecca e vennero ammucchiati a fianco dell’albergo Girasole. “Non muovetevi di
qui” raccomandava ai nuovi venuti la guardia comunale.
La maestrina Patrignani di Pietrasecca spiegava e ripeteva al suo gruppo come bisognava comportarsi, quando gridare e quando cantare; ma la sua voce si perdeva nel trambusto generale. Grascia s’incollerì.  
«Lasciateci in pace» gridò. «Non siamo dei bambini.»
Don Paolo confabulava con Magascià e col vecchio Gerametta, sui fatti successi a Pietrasecca dopo la sua partenza.
[...]I cafoni di Pietrasecca aspettavano in silenzio che la cerimonia cominciasse, mentre le donne erano più curiose e impazienti. La Cesira propose alle donne di andare in chiesa “prima che la macchina si metta a parlare”, mentre Filomena e Teresa erano contro, “per non perdere il posto”. Ma, siccome le altre andarono, anch’esse si mossero. Gli uomini si passavano intanto un fiasco di vino e bevevano a garganella. 
 «A che ora parlerà?» domandò Giacinto a don Paolo accennando all’apparecchio magico.
«Credo da un momento all’altro» disse il prete.
Quella notizia passò da uomo a uomo e ravvivò l’ansia.
“Può parlare da un momento all’altro” la gente si ripeteva.
Solo Cassarola la fattucchiera non aveva voluto scendere dal traino di Magascià. Tornarono le donne dalla chiesa e tentarono di tirarla giù.
[...] Un fragore di motocicletta dominò il brusio generale; era don Concettino Ragù, in uniforme di ufficiale della milizia.
Per evitare di incontrarlo, don Paolo si rifugiò nella sua camera. Egli si appostò alle persiane della sua finestra, al secondo piano dell’albergo. Dal suo posto di osservazione, l’assembramento di folla attorno all’apparecchio radio sembrava una raccolta di pellegrini nella prossimità di un idolo. Al di sopra dei tetti delle case, egli poteva vedere anche due o tre campanili, pieni, nelle loro sommità, di ragazzi, come piccionaie gremite di colombi. D’un tratto le campane cominciarono a suonare a distesa. La folla fu solcata dai notabili di partito i quali andavano a porre, attorno al fatale apparecchio, i feticci patriottici, le bandiere tricolori, i gagliardetti e un’immagine del capo, con l’esagerata sporgenza della mascella inferiore. Grida di “Eja, Eja”, altre grida incomprensibili erano lanciate dal gruppo dei notabili, mentre la massa faceva ala
silenziosa.


Al posto d’onore, sotto l’apparecchio, vennero accompagnate le “madri dei caduti”. Esse non potevano mancare. Erano delle povere donnette, da una quindicina d’anni vestite a lutto, da una quindicina d’anni decorate di medaglie e condannate, in cambio di un piccolo sussidio, a tenersi a disposizione del maresciallo dei carabinieri tutte le volte che le cerimonie pubbliche lo richiedessero. Vicino alle”madri” e attorno al curato di Fossa, don Angelo Girasole, si raggrupparono i parroci dei paesi vicini: vecchi preti bonari e timidi, preti cupi, preti atletici e imponenti e un canonico bianco e roseo come una balia ben nutrita.
«Che bella festa» diceva il canonico «com’è ben riuscita questa festa.»
Sotto la loggia del municipio stavano schierati alcuni grassi proprietari, barboni selvosi, trucemente sopraciliati, vestiti di velluto da cacciatori. Le campane continuavano a suonare a distesa, con i ragazzi che si davano il cambio alle corde. A un certo momento dal gruppo dei notabili, in piazza, vennero fatti dei cenni ai ragazzi perché interrompessero lo scampanare, essendo imminente la trasmissione della radio; ma quelli non capivano o fingevano di non capire. Erano in tutto una diecina di campane, suonate a distesa che rovesciavano sulle strade un frastuono assordante. Dei militi apparvero in cima al campanile più vicino e imposero ai ragazzi di abbandonare le corde delle campane. Ma il suono delle altre continuò, per cui i primi borbottii rauchi dell’apparecchio passarono inavvertiti. Un grido altissimo si levò dai gruppi dei notabili e dei militi, un grido ritmico, un’invocazione appassionata al capo: “CE DU, CE DU, CE DU, CE DU, CE DU”.
L’invocazione si propagò lentamente, fu ripresa dalle donne, dai ragazzi, accolta e ripetuta da tutta la massa, anche dai più lontani, anche dalle persone alle finestre, in un ritmo accorato e religioso.”CE DU, CE DU, CE DU, CE DU, CE DU, CE DU, CE DU, CE DU.” Dai pressi della radio si faceva cenno alla folla di tacere perché si potesse ascoltare il discorso, ma la folla ammassata nelle vie adiacenti continuava a scandire l’invocazione salvatrice, continuava a chiamare il capo, il mago, lo stregone, che disponeva del sangue e dell’avvenire comune. Il grido della folla, confuso al persistente scampanio, rese incomprensibile ai più il discorso della radio. Le due stesse sillabe finirono col perdere ogni significato, erano scandite come una formula di esorcismo, confondendosi nell’aria col suono sacro delle campane.
A un certo momento i più vicini alla radio fecero segno che la trasmissione era terminata.
«La guerra è dichiarata» gridò Zabaglione.
Egli fece cenno di voler parlare, ma anche la sua voce naufragò nel clamore della folla che continuava a invocare la salvezza, la grazia. Solo un nutrito rumore di motori interruppe l’incanto. Le automobili e le motociclette delle autorità si fecero largo nella ressa e ripartirono in tutte le direzioni. Appena don Paolo vide scomparire don Concettino, abbandonò il suo rifugio e scese per strada. Zabaglione l’accolse a braccia aperte.
«Ha visto le mie figlie?» disse con orgoglio. «Le ha viste nella distribuzione di coccarde? Il sentimento della patria le aveva completamente trasfigurate.»
«Erano belle come angeli» disse don Paolo.

Da I. Silone, Vino e pane, Mondadori, Milano, 1996, pp. 202-210.


L’adunata in Fontamara

Verso la fine di giugno si sparse la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stavano per essere convocati a una grande riunione ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo governo di Roma sulla questione del Fucino.
La notizia ce la portò Berardo, e dai suoi occhi si poteva capire la sua speranza. Se ne parlò a lungo: la notizia ci impressionò perché i passati governi non avevano mai voluto ammettere che esistesse una questione del Fucino e, da quando erano state sospese le elezioni, lo stesso don Circostanza aveva dimenticato che esistesse una tale questione, di cui prima assai parlava. Che a Roma, però, vi fosse un nuovo governo, non era da mettere in dubbio,perché da vario tempo se ne sentiva discorrere. Questo poteva anche essere una conferma che doveva esserci stata e doveva esserci ancora una guerra; perchésolo una guerra scaccia i vecchi governanti e ne impone dei nuovi; così, dalle nostre parti, come raccontavano i vecchi, i Borboni avevano preso il posto degli spagnoli e i piemontesi il posto dei Borboni.
Ma donde provenissero e di che nazione fossero i nuovi governanti, a Fontamara non si sapeva ancora con certezza.
Di fronte a ogni nuovo governo, un povero cafone non può dire altro che: «Dio ce la mandi buona»; come quando l’estate grossi nuvolone appaiono all’orizzonte, e non dipende dal cafone decidere se porteranno acqua o grandine, ma dal Padre Eterno. Però era strano che un rappresentante del nuovo governo volesse parlare a tu per tu coi cafoni.
[...] «Ogni Governo è sempre composto da ladri» [Berardo] ragionava. «Per i cafoni è meglio, naturalmente, che il Governo sia composto da un ladro solo che di cinquecento. Perché un gran ladro, per quanto grande sia, mangia sempre meno di cinquecento ladri, piccoli e affamati. Se poi divideranno nuovamente le terre del fucino, Fontamara farà valere i suoi diritti.»
[...] Finché una domenica mattina, con un rumore d’inferno, arrivò un camion a Fontamara e si fermò in mezzo alla piazza. Ne discese un conducente vestito come un militare e si mise a gridare a quelli che si avvicinavano richiamati dal rumore.
«Ad Avezzano, vi porto ad Avezzano, salite», ed indicava il camion. 
 «Quanto costa?» gli domandò prudentemente il vecchio Zompa.
«E’ gratis» spiegò il conducente. «Andata e ritorno gratis. Salite, salite, fate presto, se non volete arrivare
troppo tardi.»
«Gratis?» Zompa arricciò il naso e scosse la testa.
«Perché?» gli chiese il conducente. «Tu preferisci forse pagare?»
«Ah, no» si affrettò a chiarire Zompa. «Che Dio me ne liberi. Ma se è gratis, c’è l’inganno.»
Il conducente non gli fece più caso e riprese a gridare:
«Presto, presto; chi tardi arriva, male alloggia.»
Accorse Berardo e senza tante spiegazioni, anzi, con un’allegria che nessuno gli conosceva, saltò sul camion. Quel gesto ruppe gli indugi anche degli altri. Ma chi doveva andare? Era un caso che a Fontamara ci trovassimo ancora in una decina di cafoni, mentre gli altri erano già partiti in campagna, perché anche la domenica, d’estate, quando c’è molto da fare, la stessa Chiesa ha sempre permesso di lavorare. Ma nessuno di noi poteva far colpa al nuovo Governo d’ignorare che alla fine di giugno comincia la mietitura. Come può sapere un governo in quale stagione si miete?


[...] I pochi cafoni presenti a Fontamara saltammo dunque sul camion, senza chiedere altre spiegazioni, ed eravamo: Berardo viola, Antonio La Zappa, Della Croce, Baldovino, Simplicio, Giacobbe, Pilato e suo figlio, Caporale, Scamorza e io. Ci dispiaceva di non aver avuto tempo di cambiarci almeno la camicia, ma il conducente gridava perché ci sbrigassimo. Prima di partire però, proprio all’ultimo momento, ci chiese: «E il gagliardetto?»
«Quale gagliardetto?» domandammo noi.
«”Ogni gruppo di contadini deve assolutamente portare il gagliardetto”, dicono le istruzioni da me ricevute» aggiunse il conducente.
«Ma, scusate, cos’è il gagliardetto?» domandammo noi imbarazzati.
«Il gagliardetto è la bandiera» spiegò ridendo il conducente.
Noi non volevamo far brutta figura di fronte al nuovo Governo, proprio nella cerimonia in cui si doveva risolvere la questione del Fucino. Perciò acconsentimmo alla proposta di Teofilo, che custodiva le chiavi della chiesa ed ebbe l’idea di portare con noi lo stendardo di San Rocco. Con l’aiuto di Scamorza egli andò in chiesa a prendere lo stendardo, ma quando il conducente lo vide tornare, reggendo a fatica un albero di dieci metri, al quale era attaccato un immenso drappo color bianco e celeste, con l’immagine dipinta si Sano Rocco e del cane che gli lecca la piaga, voleva opporsi a lasciarlo caricare sul camion. Ma a Fontamara noi non avevamo altra bandiera e su insistenza di Berardo il conducente finì col consentire a lasciarci portare lo stendardo.
«Sarà un divertimento in più» disse.
Per tenerlo ben dritto sul camion in corsa, noi fummo costretti a darci il cambio, tre per volta, ed era una grande fatica. Più che una bandiera, il nostro stendardo pareva l’albero di un bastimento agitato dalla tempesta. Esso doveva essere visibile a grande distanza, perché vedevamo i cafoni che lavoravano sparsi per i campi, compiere grandi gesti trasecolati, mentre le donne si inginocchiavano e facevano il segno della croce.
Il camion correva pazzamente in discesa con scarso riguardo per le continue svolte, e noi eravamo violentemente sballottati l’uno contro l’altro, come un branco di vitelli, ma ne ridevamo. Anche quell’insolita rapidità dava alla nostra gita il carattere di un’avventura straordinaria; ma quando, all’ultima svolta, all’improvviso, davanti a noi, ci trovammo la pianura dal Fucino, vastissima e dorata di messi mature, spartite da filari di pioppi giganteschi, l’emozione ci tagliò il respiro. Fucino aveva un aspetto nuovo: l’aspetto della terra promessa. A quel punto Berardo afferrò da solo lo stendardo e con la forza in più che gli veniva dall’entusiasmo, l’innalzò e agitò nell’aria l’immagine del santo pellegrino e del pio cane. 
 «Terra, terra» si mise a gridare come se non l’avesse mai vista.
[...] La vista del nostro immenso stendardo bianco-celeste con la immagine del santo suscitava in tutti dapprima stupore e poi interminabili risate insulse. Le bandiere che traevano gli altri erano nere e non più grandi di un fazzoletto e avevano nel centro l’immagine di un teschio tra quattro ossi, come quello che si vede sui pali del telegrafo con la scritta Pericolo di morte; insomma niente affatto più bella della nostra. 
 «Sono i morti vivi?» domandò Baldovino indicando gli uomini neri con le bandiere mortuarie. «Sono le anime comprate da don Circostanza?»
«Sono le anime comprate dal governo» spiegò Berardo.
A causa dello stendardo, avemmo un violento tafferuglio all’entrata di Avezzano. In mezzo alla strada trovammo un gruppo di giovanotti con la camicia nera che aspettavano proprio noi e subito ci intimarono di consegnare lo stendardo. Noi rifiutammo perché non avevamo altra bandiera. Il nostro conducente ricevette ordine di fermare il camion e i giovanotto cercarono di sequestrarci lo stendardo con la forza. Ma noi, che eravamo assai irritati per gli scherni precedenti, reagimmo con energia e parecchie camicie nere indossate da quei giovanotti divennero grigie sul polverone della strada.


Attorno al camion si radunò molta gente urlante. Vi erano molti giovanotti con la camicia nera, ma anche molti dei cafoni dei villaggi confinanti con Fontamara, i quali ci riconobbero e ci salutarono a gran voce. Noi stavamo zitti e in piedi sul camion, attorno allo stendardo, decisi a non ammettere più insulti. D’un tratto, vedemmo apparire in mezzo alla folla la figura grassa, sudante e sbuffante di don Abbacchio assieme ad alcuni carabinieri, e nessuno di noi dubitò che, come prete, egli avrebbe preso le difese di San rocco. Invece fu il contrario.
«Credete che sia carnevale?» egli si mise a inveire contro di noi. «E’ questo il modo di compromettere l’accordo fra il Clero e l’Autorità? Quando la finirete, voialtri Fontamaresi, con le provocazioni e le chiassate?»
Senza più fiatare, noi lasciammo che i carabinieri si impadronissero dello stendardo. Berardo fu il primo a cedere. Se un canonico rinnegava San Rocco, perché proprio noi dovevamo restargli fedeli con il rischio di compromettere i nostri diritti sul Fucino?
Fummo condotti su una grande piazza dove ci venne assegnato un buon posto, dietro al palazzo del tribunale, all’ombra. Altri mucchi di cafoni erano stati addossati ai vari edifizi attorno alla piazza. Tra un mucchio e l’altro vi erano pattuglie di carabinieri. Staffette di carabinieri in bicicletta attraversavano la piazza in tutti i sensi. Appena arrivava un nuovo camion i cafoni venivano fatti scendere e accompagnati dai carabinieri in un punto convenuto della piazza. Sembravano i preparativi di una grande festa. A un certo momento attraversò la piazza un ufficiale dei carabinieri a cavallo. Berardo trovò il cavallo bellissimo. Noi ammiravamo tutto, estasiati.
Subito dopo, arrivò una staffetta che consegno un ordine alle pattuglie. Berardo ci faceva ammirare la rapidità dei movimenti. Da una pattuglia si staccò un carabiniere che comunicò l’ordine ai cafoni. Diceva l’ordine: «E’ permesso di sedersi per terra.»
Noi ci sedemmo per terra. Eravamo ubbidienti come scolari. Seduti per terra rimanemmo circa un’ora.
Dopo un’ora di attesa, una staffetta provocò una viva agitazione. All’angolo della piazza apparve un folto gruppo d’autorità. I carabinieri ci ordinarono: «In piedi, in piedi. Gridate forte: Viva i podestà. Viva gli amministratori onesti, viva gli amministratori che non rubano.»
Noi balzammo in piedi e gridammo come loro volevano:«Viva i podestà, viva gli amministratori onesti, viva gli amministratori che non rubano.»
Tra gli amministratori-che-non-rubano il solo che noi riconoscessimo fu l’impresario. Dopo che gli amministratori-che-non-rubano si furono allontanati, col consenso dei carabinieri, potemmo nuovamente sederci per terra. Berardo cominciò a trovare la cerimonia troppo lenta.
«E la terra?» chiese ad alta voce ad alcuni carabinieri. «Quando se ne parla?»
Dopo alcuni minuti, una staffetta diffuse nella piazza un’emozione più viva.
«In piedi, in piedi» c’intimarono i carabinieri. «Gridate più forte: Viva il prefetto.»
Il prefetto, in una lucente automobile, passò e noi potemmo nuovamente sederci per terra, col consenso dei carabinieri.
Ma, appena seduti, i carabinieri ci fecero rialzare. «Gridate il più forte che potete:Viva il ministro!» ci dissero.
Nello stesso momento apparve una grande automobile seguita da quattro uomini in bicicletta e attraversò la strada in un lampo, mentre noi gridavamo, il più forte che potessimo: «Viva il ministro, viva!»
Poi, col consenso dei carabinieri, ci risedemmo per terra. Le pattuglie si diedero il cambio per il rancio. Noi aprimmo le bisacce e ci mettemmo a mangiare il pane portato da casa.


«Adesso ci chiamerà il ministro» ci assicurava Berardo ogni tanto. «Vedrete, adesso sta studiando il nostro caso e subito ci farà chiamare. Mangiamo in fretta.»
Verso le due invece si ripeté la pantomima. Prima ripassò il ministro, poi ripassò il prefetto, poi ripassarono gli amministratori-che-non-rubano. Ogni volta noi dovevamo alzarci in piedi e dare segni e grida di entusiasmo.
Alla fine i carabinieri ci dissero: «Adesso siete liberi. Potete andarvene.»
I carabinieri ce lo dovettero spiegare con altre parole.
«La festa è finita. Potete andarvene oppure visitare Avezzano. Ma avete solo un’ora di tempo. Fra un’ora dovrete essere partiti.»
«E il ministro? E la questione del Fucino?» domandammo noi trasecolati. «Che scherzo è questo?»
Però nessuno ci diede ascolto. Però noi non potevamo ripartire senza aver nulla concluso e senza aver nulla capito di quello ch’era successo.
«Venite dietro a me» disse Berardo che era alquanto pratico di Avezzano per esservi stato un paio di volte in carcere.
Egli aveva cambiato viso e voce.
«Magari torno in carcere» ci disse «ma la curiosità devo levarmela. Venite dietro di me.»
Arrivammo a un portone d’un palazzo tutto imbandierato.
«Vogliamo parlare col ministro» disse bruscamente Berardo ai carabinieri che guardavano il portone. Come se Berardo avesse proferito una bestemmia, i carabinieri gli si buttarono addosso e cercarono di trarlo dentro il portone. Ma noi ci aggrappammo a lui e successe un parapiglia. Dall’interno del palazzo accorse molta gente, tra cui don Circostanza, in stato di evidente ubriachezza, con i pantaloni ad armonica già nel terzo stadio.
«Nessuno manchi di rispetto ai miei Fontamaresi. Trattate bene i miei Fontamaresi» egli si mise a gridare.
I carabinieri ci lasciarono e don Circostanza venne fra noi e volle abbracciarci e baciarci uno a uno; particolarmente affettuoso egli fu con Berardo.
«Vorremmo parlare col ministro» domandammo all’Amico del popolo
«Il ministro purtroppo è già ripartito» egli ci rispose. «Per un impegno urgente, voi mi capite, per un affare di Stato.»
«Vorremmo sapere com’è risolta la questione del Fucino» interruppe Berardo seccamente.
Don Circostanza ci fece accompagnare da un carabiniere negli uffici dell’amministrazione del feudo e là trovammo un impiegato che ci spiegò assai pazientemente com’era stata risolta la questione del Fucino.
«Il nuovo Governo ha esaminato la questione del Fucino?» domandò Berardo.
«Sì, e in un modo soddisfacente per tutti» rispose l’impiegato con un falso sorriso.
«Perché non siamo stati chiamati a discutere? Perché siamo stati lasciati sulla piazza?» protestò Pilato.
«Non siamo cristiani anche noi?»
«Il ministro non poteva parlare con diecimila persone. Ma egli ha parlato con i vostri rappresentanti» rispose l’impiegato. «Siate ragionevoli.»
«Chi era il nostro rappresentante?» domandai io.
«Il cav. Pelino, graduato della milizia» fu la risposta.
«In che modo sono state divise le terre? Quanta parte ne sarà data ai Fontamaresi? Quando avverrà la spartizione?» tornò a insistere Berardo con impazienza.
«Le terre non saranno divise» rispose l’impiegato. «Il ministro e il rappresentante dei cafoni hanno anzi deciso che i piccoli fittavoli devono essere, se possibile, eliminati. Molti di essi hanno ricevuto la terraperché ex-combattenti, ma questo non è giusto.»


«Infatti» interruppe Berardo sgarbatamente «essere stato in guerra non significa saper lavorare la terra. L’importante è lavorare la terra. Fucino a chi lo coltiva, è il principio di don Circostanza. I Fontamaresi...»
«E’ anche il principio accettato dal signor ministro» riprese a dire l’impiegato col suo sorriso ingannatore.
«Fucino a chi lo coltiva. Fucino a chi ha i mezzi per coltivarlo o farlo coltivare. In altre parole, fucino a chi ha capitali sufficienti. Fucino deve essere liberato dai piccoli fittavoli miserabili e concesso ai contadini ricchi.Avete altri schiarimenti da chiedere?»
Egli ci diede quella spiegazione con la stessa indifferenza come se gli avessimo chiesto l’ora. Il suo viso mostrava l’impassibilità di una barbabietola.
«Tutto è chiaro» rispondemmo noi.
Tutto era chiaro. Le strade erano piene di luci. Si era fatto tardi, ma le vie erano illuminate a giorno. (Tutto era chiaro.) Ma perché tutto questo?


da I. Silone, Fontamara, Mondadori, Milano, 1988, pp. 96-107.